Impianti di termovalorizzazione, perché sono i migliori
Chicco Testa, nel suo articolo Rifiuti, una sola soluzione impianti industriali, ha spiegato che la realizzazione e la messa in opera di impianti di termovalorizzazione non è obbligatoriamente un sinonimo di inquinamento ambientale e di deturpazione del territorio. Anzi, sono proprio questi impianti a terminare il ciclo di recupero energetico dei rifiuti e quindi ad inserirsi perfettamente in un’ottica di economia circolare[1].
I termovalorizzatori producono vapore ed elettricità: basti pensare che nel 2016 i 71 impianti energetici sul territorio statunitense hanno generato 14 miliardi di kilowattora di energia elettrica dalla combustione di circa 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani (MSW). I materiali da biomassa, qui, rappresentavano circa il 64% del totale di MSW inceneriti e circa il 51% dell'elettricità generata, la rimanente parte era costituita essenzialmente da plastica.
Una posizione, quella del Presidente di Fise AssoAmbiente, che abbiamo anche analizzato nel merito, abbracciandone i contenuti, durante la nostra partecipazione al MATER Meeting – Innovation & Technologies in Waste Recovery al Campus di Piacenza della fine dello scorso maggio[2].
Utilizzare in maniera equilibrata tutte le fasi del trattamento dei rifiuti, infatti, “può ridurre al minimo il consumo di reagenti e la generazione di residui di processo e acque reflue, rispetto a un sistema mal bilanciato con la stessa efficienza complessiva di rimozione del gas acido”.
Un lavoro che va fatto in quanto, come afferma in un recente report anche la stessa Banca Mondiale, la quantità di rifiuti prodotti dall’Europa continuerà a crescere. Partendo dal principio per il quale l’obiettivo fissato è del 65% di materiali portati al riciclo e del 7% da destinare nelle discariche, infatti, si nota che i rifiuti urbani ricoprono il solo 10% della produzione totale europea. Ad interessare particolarmente gli sviluppi futuri di questo settore saranno i rifiuti non minerali e non pericolosi, per i quali entro il 2035 ci sarà bisogno di una capacità di trattamento pari a 140 milioni di tonnellate annue.
Se consideriamo che, attualmente, la capacità degli impianti di termovalorizzazione dell’Europa si assesta sulle 88,2 milioni di tonnellate, mentre quella di coincenerimento di 10,5, è evidente come ci sia una forbice di 40 milioni di tonnellate che non potranno essere gestite secondo un sistema circolare. E si tratta di un flusso inevitabile[3].
La termovalorizzazione non va pensata come un processo attivato soltanto mediante incenerimento, ma come una produzione di energia sulla base di rifiuti che passa, ad esempio, anche attraverso l’elettricità. È la trasformazione dei rifiuti in energia una delle principali chiavi di volta dell’economia circolare, e ne rappresenta uno dei perni fondanti fin dalla sua richiesta di adozione da parte dell’Unione Europea datata 2015. Questa linea d’azione rientra perfettamente per l’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e cerca di porre rimedio all’economia lineare adottata fino ad ora, improntata invece sulla logica del prendere-produrre-consumare-smaltire. Bruxelles ha quindi fissato i principi di questo (ormai decennale) paradigma nell’accrescimento della diffusione delle energie rinnovabili, nell’aumento dell’efficienza e dell’ottimizzazione energetica, nella drastica riduzione della dipendenza federativa dall’importazione delle risorse e dalla pianificazione mirata di nuove opportunità economiche e competitive[4].
Un esempio? “Nel 2007, con un trattamento di 1.792.737 tonnellate, l'energia elettrica prodotta e venduta negli impianti di termovalorizzazione era di 1.606.191 MWh. Negli ultimi anni, la capacità di trattamento dei 10 impianti spagnoli di incenerimento è aumentata e nel 2012 sono stati inceneriti 2,33 milioni di tonnellate di rifiuti, il che significa l'11% della produzione totale di rifiuti. La distribuzione dei rifiuti è stata la seguente: 1,03 milioni di tonnellate di RSU misto, 1,24 milioni di tonnellate di materiali respinti dagli impianti TMB, 0,02 milioni di tonnellate dagli impianti di selezione degli imballaggi e 0,04 dagli impianti di riciclaggio”[5].
È quindi un errore associare il trattamento dei rifiuti con l’inquinamento. Lo ha affermato anche la Public Health England (formata da commissioni miste universitarie e istituzionali della Gran Bretagna), che esaminando l’effetto delle emissioni di PM10 sulle nascite nei pressi dei termovalorizzatori dei rifiuti urbani tra il 2003 e il 2010. “Più di un milione di nascite in prossimità di inceneritori di rifiuti urbani sono state esaminate in base ai seguenti parametri: peso alla nascita, piccolo per età gestazionale a termine, mortalità fetale, neonatale, post-neonatale e infantile, nascite multiple, rapporti sessuali e parto pretermine; la ricerca si conclude dichiarando di non aver trovato prove di un aumento del rischio di una serie di esiti di nascita, peso alla nascita, parto prematuro e mortalità infantile, in relazione alle emissioni di inceneritori di rifiuti urbani o vivendo in loro vicinanza”[6].
Per i volumi e l’importanza che ricopre ora questa emergenza nella società dei consumi il tema dei rifiuti può e deve essere posto in primo piano nell’agenda europea e mondiale, per recuperare la vivibilità dei nostri centri urbani e cominciare a pianificare una strategia che guardi al medio-lungo periodo. Affrontarlo in maniera seria e responsabile significa soprattutto ragionare circa il nostro stile di vita, ma comprendere anche che questo problema non potrà essere risolto soltanto attraverso le tecnologie di smaltimento[7].
[3] 4th Mater Meeting, May 27th, 28th and 29th 2019, Innovation & Technologies in Waste Recovery